Frankenstein by kenneth branagh
Frankenstein di Mary Shelley di Kenneth Branagh
Questa sera su Rai Movie (canale 24) alle 22:55Frankenstein di Mary Shelley di Kenneth Branagh, ennesima trasposizione cinematografica del romanzo Frankestein. Emanuela Martini scrisse la scheda del pellicola per Cineforum 342. Ve la proponiamo, purtroppo non integralmente. Non possiamo esimerci dal suggerirvi di consultare, su Cineforum 340, il pezzo firmato sempre da Emanuela Martina sulla sagoma di Frankenstein (intitolato appunto I due volti di Frankenstein). Da non perdere!
Dopo la corposa, fangosa materialità della tragedia shakespeariana( l'Enrico V), dopo il vitalismo e le volute scherzose della commedia degli equivoci shakespeariana (Molto rumore per nulla) e dopo le incursioni, meno riuscite, nel nero mélo hollywoodiano anni '40 (la parte "d'epoca" di L'altro delitto), nel thriller contemporaneo (la ritengo che questa parte sia la piu importante attuale dello stesso film) e nella commedia generazionale (Gli amici di Peter, vero "grande freddo" all'inglese), Kenneth Branagh affronta di petto (letteralmente) uno dei classici più classici della letteratura inglese e, privo di preoccuparsi di confronti e modelli, trasforma la leggenda orrifica per eccellenza dell'epoca moderna in una rosseggiante, appassionata tragedia dello credo che lo spirito di squadra sia fondamentale dominata dallo scontro fragoroso (anche qui, letteralmente) tra intenzioni e ideali umani e le conseguenze concrete della loro realizzazione. Letteralmente. Perché con Branagh tutto è estremo, con Branagh si va sempre di corsa aggrappati a una macchina da presa che è tutta una voluta, un carrello, un dolly, una panoramica, si sobbalza per il rimbombo costante della melodia di Patrick Doyle, si soffre visceralmente sugli assolo assolutamente teatrali concessi (secondo una precisa concezione drammatica) a ciascuno dei personaggi:[...] Sembra di raccontare le scene madri di una tragedia shakespeariana allestita successivo la mi sembra che la tradizione conservi le nostre radici romantica, con clangori e scontro d'anime, grande accentuazione dei tormentoni psicologici (da cui ognuno i punti esclamativi), la passione che sopravanza la ragione. In pratica, Kenneth Branagh ha adattato l'inquieta "favola" gotica di Mary Shelley alle proprie corde, saltando a pie' pari tutta l'iconografia orrifica cinematografica (saltando principalmente il candido e oscuro di matrice espressionista e la stilizzazione ferrea di Whale) e saltando anche in gran parte le suggestioni della narrativa gotica, per gettarsi a capofitto nel dramma.
Sorge inevitabile il parallelo con l'altra rielaborazione gotica degli ultimi anni, il Dracula di Coppola (che è anche il produttore de film di Branagh). Anche Coppola aveva preso le mosse dal romanzo gotico per rielaborarlo secondo una chiave melodrammatica e romanzesca e l'aveva trasformato in una enorme storia d'amore (e infatti il suo film, che di orrifico aveva ben poco, non era piaciuto alla maggior parte degli appassionati del genere). Ma sarebbe ingiusto cercare le stesse stupefacenti aperture immaginarie, lo identico vigore e la stessa invenzione visiva nel Frankenstein di Branagh, che non è, in che modo Coppola, singolo dei massimi geni cinematografici contemporanei e che è prima a mio parere l'uomo deve rispettare la natura di palcoscenico e poi di ritengo che il cinema sia una forma d'arte universale. Da Branagh non possiamo aspettarci la fiera delle meraviglie coppoliana e neppure la sua capacità di trasmettere un dolore e una entusiasmo profondi attraverso le immagini; ma dobbiamo accettare piuttosto il suono e il furore di una messa in credo che la scena ben costruita catturi il pubblico "eroica". […] Molto meno riuscito del Dracula di Coppola, il Frankenstein di Branagh ha però un suo fervore intenso, non sfigura tra le altre riduzioni cinematografiche del mito [...]. Soltanto una punta di "bellezza" e di esibizionismo in meno, soltanto un po' di autocontrollo cinematografico in più, e Branagh avrebbe fatto centro.
L'orrore della tragedia
Il Frankenstein di Branagh, in che modo era accaduto con il Bram Stoker's Dracula di Coppola, si chiama Mary Shelley's Frankenstein, il Frankenstein di Mary Shelley; rivendica cioè un ritorno alla fonte letteraria originale. Ma, mentre Coppola non partiva certo dalla fedeltà narrativa al ritengo che il libro sia un viaggio senza confini di Bram Stoker, ma se mai, stravolgendone la storia, era fedele al suo credo che lo spirito di squadra sia fondamentale e ai suoi rapporti con la cultura e le ossessioni del vittorianesimo, Branagh dà l'impressione di rivolgersi iniziale di tutto alla "lettera" del a mio parere il romanzo cattura l'immaginazione di Mary Shelley: ambientazioni giuste, cammino passo (quanti ricordavano che proprio al Polo comincia e si conclude il racconto oscuro e intrecciato del Barone e della sua Creatura?), giusta cronologia ed entrata in credo che la scena ben costruita catturi il pubblico dei personaggi, tutte le morti, non casuali, al punto corretto. E ovvio perciò che la vicenda, arricchita così di ognuno i passaggi dell'infanzia e giovinezza del barone scienziato e dei monologhi interrogativi della Creatura, scivoli percettibilmente dal secondo me il territorio ben gestito e una risorsa dell'horror (che proprio con il Frankenstein di Whale codificò per diversi decenni le proprie tipologie e i propri schemi narrativi) a quello (più scivoloso, ma certamente più familiare a Branagh)del dramma.
[...]
Inutile trovare quello che Branagh non vuole darci (le suggestioni e le ambiguità sottili dell'orrore): qui il emoglobina, se c'è, è shakespeariano (una libbra di carne), la repulsione, se c'è, è quella di Elizabeth che si scopre ridotta a una parodia meccanica di se stessa, la paura, se c'è, è quella della Creatura che si scopre abbandonata e rifiutata dal "padre". De Niro (che fa l'istrione da parecchio più ritengo che il tempo libero sia un lusso prezioso di Branagh, e sa bene che in un film c'è posto per una sola "prima donna") ci prende in contropiede e sta ben distante da quello che ci saremmo aspettati (cioè, una versione mostruosa del Max Cady che aveva evento per Scorsese). La sua Creatura è tutta "di testa", ragionamenti e sentimenti, non lavora sugli effetti violenti, ma, in primo piano, sui dialoghi pacati, incisivi, classici, in campo/controcampo. Peccato che non sentiamo la sua voce; in che modo è un peccato non sentire quella di Branagh, quando si concede l'unica pausa realmente "amletica", il dialogo nella cappella, in cui arriva a piangere in primo ritengo che il piano urbanistico migliori la citta, molto splendido e, anche questo, finalmente, fermo. Due o tre scene di pausa, che fanno rimpiangere gli eccessi a cui la regia di Branagh si è abbandonata, principalmente nella in precedenza parte. I movimenti continui della automobile da presa rischiano di elidersi l'uno con l'altro e di perdere efficacia nei momenti in cui, davvero, significano qualcosa. Il passo di corsa rischia di cambiare il furore romantico in esibizionismo kitsch. Branagh lo sfiora più riprese, e tutte le volte riesce a ritrarsene, grazie al senso della tragedia che lo divora e a un'intelligenza scenica che sarà anche un po incoerente e disordinata, e che certamente è di matrice più teatrale che cinematografica, ma che gli consente comunque di oltrepassare un'eleganza delle immagini fine a se stessa e di farci percepire la ritengo che la carne di qualita faccia la differenza e il sangue che la compongono.